Leonardo Tonini a Bologna nel 2022
foto di Giovanna Dell’Acqua

Leonardo Tonini, che abbiamo incontrato al mitico SFestival ci racconta del suo rapporto con la scrittura che per lui è poesia, racconti e teatro.

Dopo la splendida raccolta di racconti di “Origine degli uccelli“, edita  Delos Digital (che abbiamo letto, riletto e rileggeremo) è la volta di un’opera teatrale, l’atto unico “I vecchi” che abbiamo letto in anteprima per voi.

1 – Come è iniziato il tuo percorso artistico? C’è stato un momento o un evento specifico che ti ha spinto a dedicarti alla scrittura e alla poesia?

 

Non è una domanda facile perché, da che ho ricordi, ho sempre scritto. Alle elementari scrivevo testi di astronomia, i miei genitori mi avevano regalato il Grande libro dello Spazio, i famosi libri gialli Mondadori. Penso di aver letto ogni lettera e ogni cifra del libro, comprese le indicazioni editoriali e il codice ISBN. Mi affascinava tantissimo e inventavo storie o scrivevo quello che avevo capito sul sistema solare e sulla missione Apollo. Allora l’universo non aveva le dimensioni che aveva adesso, la galassia più lontana era Andromeda e si conosceva qualcosa del Gruppo Locale, ma tutto sembrava confinato alla nostra galassia, con poco altro oltre. Poi c’era mia mamma che mi leggeva una infinità di storie, io ero letteralmente insaziabile. Ero un tipo strano da piccolo, gli amici venivano a chiamarmi per giocare a calcio, ma io dicevo di no, ché dovevo leggere un libro. Alle medie scrivevo testi per canzoni, alle superiori ho iniziato con i racconti. Non mi sono mai creduto scrittore o poeta o altro, non mi ero mai visto come un possibile letterato, non avevo questa consapevolezza, anche perché non era nel mio orizzonte pubblicare qualcosa. Scrivevo per scrivere, era un vizio, come quello di leggere, anche una fuga dalla realtà, dai problemi.

 

2 – Hai esplorato diversi generi, dalla poesia alla narrativa e al teatro. Come cambia il tuo approccio creativo quando lavori su un’opera teatrale rispetto a una raccolta poetica?

 

La poesia è tecnica, al punto che ti costringe a cambiare quello che senti l’urgenza di dire. Se devi costruire un verso in metrica, gli accenti e il numero delle sillabe sono obbligati e quindi, se una parola non ci sta, la devi per forza cambiare. Ma cambiando una parola, cambia il senso del tutto. È una lotta con l’angelo, come con il povero Giacobbe, ne esci sempre azzoppato, cioè diverso da come ti eri creduto. È una lotta contro la perfezione dove ovviamente se ne esce sconfitti, ma è una sconfitta che vale più di tante vittorie; mi ha dato molto di più ciò che ho fatto nella poesia che in tutte le altre mie prove letterarie. E questa cosa è pazzesca. Nel teatro ti devi annullare, io posso scrivere di un nazista e questo non vuol dire che io lo sia, parlo di lui, non sono lui. Devo annullare me stesso, il mio parere sui nazisti, e dire: come pensa un nazista? Ha dei lati umani? E se li ha, perché è un nazista? O meglio: in cosa quest’uomo normale è un nazista?  In poesia questa cosa non si può fare, nella poesia ci siamo noi, nudi, a costo di farci male. Nella narrativa la prevalenza è sulla storia, c’è una storia, anzi solo una parte di una storia molto più grande, che traspare nel non detto. Nel racconto l’Astronauta, che tu hai letto, un uomo si sveglia e si trova guarito da un lungo episodio di schizofrenia che aveva sospeso la sua vita. Ma il racconto descrive poche ore nella giornata di questo individuo, con pochi fatti. Cosa è successo prima? Cosa succederà dopo? È tutto lasciato al lettore.

 

3 – Quali sono stati gli autori o le opere che hanno maggiormente influenzato il tuo stile e la tua visione artistica? 

 

Anche qui ho difficoltà a rispondere, ho letto e leggo ancora oggi di tutto, dai fumetti ai trattati scientifici. Più che autori direi che alcune persone mi hanno influenzato (anche) dal punto di vista letterario. Penso al grande poeta Vito Taverna, recentemente scomparso a 95 anni. Lo andavo a trovare nella sua casa a Scandolaia, viveva da solo in questa casa meravigliosa in mezzo al bosco. Penso anche al mio professore, Marzio Pieri, che mi ha detto che la cultura è un flusso e che bisogna immergersi completamente, teatro, cinema, fumetti, poesia, ma anche la cosiddetta cultura pop, quotidiani, tv, e ancora parlare, ascoltare… Non c’è un momento per la cultura, ma qualsiasi cosa è cultura. E infine c’è Mauro De Palmas, scrittore sardo, una figura che mi ha messo sulla retta via letteraria quando avevo 14 anni, la prima persona che letterariamente ha avuto fiducia in me.

 

4 – La tua scrittura sembra intrecciare poesia e filosofia. In che modo il pensiero filosofico ha influenzato la tua poetica e la tua visione del teatro? Ci sono filosofi che consideri fondamentali per il tuo lavoro?

 

La filosofia ci aiuta a chiarire il nostro ragionamento, ad essere precisi nel pensiero. Inoltre, ci insegna a fare piazza pulita delle credenze, delle superstizioni. Non nel senso che ci rende atei, ma ci aiuta nel duro compito di pulire la nostra mente dai miti che ci creiamo, dalle abitudini del pensiero, dai bias cognitivi. La faccenda prende il nome di scepsi, farci domande sulle domande. Mi faccio una domanda e comincio a fare filosofia quando imparo a chiedermi: perché mi faccio questa domanda? È una domanda lecita? In questo senz’altro mi ha aiutato Wittgenstein, soprattutto la sua teoria dei giochi linguistici. La filosofia ci insegna a guardare meglio e più in grande, da un punto di vista più alto. Ma la cosa più bella è che ci insegna a vedere quello che tutti abbiamo davanti agli occhi, e che troppe volte non vediamo. È un cammino verso la realtà: verso quella impressione primaria che è sepolta appunto da abitudini di pensiero e da spazzatura culturale. La mia poesia è, vuole essere, questo cammino verso la realtà. Come faccio a trasmettere ciò che vedo? Questa è la domanda implicita che sempre mi pongo: qual è il miglior modo per dirlo? Quello che provo filtra dalla descrizione del mondo, o meglio dalla visione del mondo, ma non è intenzionale. Quando intenzionalmente vogliamo comunicare ciò che sentiamo “nel nostro cuore”, per usare una espressione trita, cadiamo appunto nel banale o nel sentimentale. Perché dovrei essere interessato a cosa prova il poeta? Se ti dicessi cosa provo io, tu potresti dirmi: “Non mi interessa: io non ti conosco.” Ma se quello che ho scritto risuona dentro di te e tu ci vedi te stesso, allora io e te stiamo comunicando, allora ho fatto letteratura.

 

5 – La tua opera “I Vecchi” affronta temi universali come la vecchiaia e la mortalità. Come si inserisce questa pièce nel tuo percorso artistico complessivo? È un’evoluzione naturale o un momento di rottura rispetto ai tuoi lavori precedenti?

 

La mia pièce, I Vecchi, risale a molti anni fa e voleva essere uno sketch comico. Il comico si intravvede ancora in qualche battuta, in qualche atteggiamento dei due personaggi, ma a prevalere è la ferocia senza speranza della situazione. Una cattiveria disperata quella del Padre, data chiaramente dalla paura della prossimità della morte, tanto che non si riesce a odiare questo vecchio rancoroso, se ne ha pietà. L’odio è un modo per resistere all’angoscia, il Padre umilia il figlio per sentirsi qualcuno, per non dire a se stesso di aver fallito come uomo. È un uomo terrorizzato e disperato. Solo molti anni dopo leggendo Erikson ho scoperto che nell’ultima fase della vita si ha quella che viene definita la fase dell’integrità dell’Io, il bilancio, l’idea di aver svolto il nostro compito sulla Terra. Erikson appunto dice che questo è l’esito positivo, ma che l’esito negativo sfocia appunto nella fase chiamata Disperazione. Il sentimento tremendo di non avere più tempo, di non avere più l’energia, di avere insomma sprecato la propria vita. Il teatro è così, volevo scrivere una commedia e ne è venuta una tragedia. Non vedo una evoluzione con miei precedenti lavori, il tragico è sempre incombente nella mia scrittura.

 

6 – Ho notato che la scenografia è estremamente minimalista come il linguaggio dell’opera è essenziale e asciutto. Puoi spiegare se e come questa scelta stilistica si collega alla scenografia?

 

Domanda interessante! Il fatto è che a me pare che ci sia tutto ciò che serva. Io poi ho grande fiducia in chi fa teatro, credo che ne sappia in ogni caso più di me che non pratico il teatro. E quindi implicitamente lascio fare al regista o agli interpreti. Nel teatro sono nuovo, niente di ciò che ho scritto è mai stato rappresentato anche perché non ho mai proposto a nessuno pezzi miei. Con I Vecchi, sto raccogliendo pareri, critiche e consigli. C’è stata una mia pièce che è stata rappresentata in realtà, ma era una burla per ridere. Con degli amici fondammo all’università un gruppo goliardico, I sannixisti, non sto a raccontarti la storia o il senso. In ogni caso, l’atto unico si chiama Tu puzzi, ed è l’unico mio pezzo teatrale effettivamente messo in scena, in una libreria di Cremona. Scelta stilistica, dici? Chi fa scelte stilistiche? Lo stile esce da sé. Ogni opera vuole il suo stile, ho tante cose in testa che restano in testa perché sono in cerca di uno stile. La letteratura è una faccenda di stile.

 

7 – La vecchiaia e la mortalità sono temi universali che attraversano la letteratura di ogni epoca (Beckett e Shakespeare per citarne alcuni). In che modo la tua opera dialoga con la tradizione letteraria e teatrale su questi temi? Ti senti parte di un’eredità o cerchi di distaccartene?

 

Accidenti, non pensavo di dialogare con la tradizione letteraria! I nomi che fai sono enormi, io sono un dilettante, almeno nel teatro. Anche i temi universali mi spaventano, poi è chiaro che essendo universali ci finisci sempre dentro. No, forse il nome che mi viene in mente è Pinter, Harold Pinter. Facendo le debite proporzioni, anch’io nel teatro, come lui tendo a essere essenziale e piuttosto cinico. Mi viene così, non sono io che imposto la cosa. C’è stato un amico, un regista teatrale, a cui ho fatto leggere I Vecchi e mi ha detto che per lui era stato molto doloroso arrivare alla fine perché si trovava in quel momento esattamente nella stessa situazione, con una madre anziana che non perdeva occasione per denigrarlo. Lui la serviva, appunto perché molto anziana e non autosufficiente, e in cambio ne aveva insulti e offese di ogni tipo. Mi ha detto: “Hai colto perfettamente la faccenda.”

 

8 – In “I Vecchi” il rapporto tra il Padre e il Figlio sembra incarnare una lotta tra memoria e disillusione. Il Padre non riesce a distinguere il passato dal presente, mentre il Figlio vive con una consapevolezza disillusa del tempo che scorre. La memoria è un peso o una risorsa?

 

La memoria è la materia di cui siamo fatti. Basta vedere cosa succede a chi soffre di Alzheimer, se togli la memoria a un individuo, non esiste più. Il Padre non ricorda tante cose, chiede al figlio che lavoro faccia, o si sorprende quando scopre che il figlio è anziano. Ma non vuole nemmeno ricordare, c’è un dolore che non lo abbandona e che traspare tutte le volte che sta per ricordare la moglie. In quel momento, quando in due o tre occasioni dice “Tua madre…” si interrompe e si accascia, il ricordo lo annienta, non vuole affrontare quella cosa. Il figlio è più realizzato, ha un senso unitario di sé, sa che le cose non sono andate come sperava, ma accetta il suo fardello. Non si colpevolizza; dice: “Le cose sono più complicate di così” intendendo che non tutto è in nostro potere.

 

9 – Quali sono i tuoi progetti futuri? Stai lavorando a nuove opere teatrali, raccolte poetiche o altri progetti letterari? 

 

Il mio progetto di vita è uno solo: trovare tempo per scrivere. Per leggere e per studiare. E quando ho tempo, trovare la concentrazione, la serenità. Invidio i monaci del medioevo, nella loro celletta a scrivere. Che poi è un sogno romantico, non è mai stato così, ma la mia meta è quella. Ho scritto delle poesie in un periodo della mia vita veramente pessimo, non vedevo strade davanti a me. Le ho lasciate in un cassetto, poi le ha lette un’amica e le ha portate in Svizzera (studiava a Lugano). Dopo qualche settimana mi ha chiamato questo editore e adesso le mie poesie sono state tradotte in arabo, in tedesco, in spagnolo e in inglese. Prima non avevo mai pensato di essere un poeta, né tantomeno essere riconosciuto come tale. Adesso lo sono? Non lo so; quello che è certo è che in quel momento mi hanno salvato la vita. Ho capito che se non nutri ambizioni non verrai deluso, e quello che arriva è un dono. Bisognerebbe non avere ambizioni e non arrendersi, invece oggi siamo pieni di ambizioni e molliamo alla prima difficoltà. Solo un pazzo quando tutto va a rotoli si metterebbe a scrivere poesie, grato di esserlo stato.