Sette anni luce di distanza dalla Terra, una tecnologia da miliardi di euro mi pompa protoni sotto alle chiappe in un viaggio progettato da una intelligenza artificiale che si chiama Quentin e costa come il PIL della Cina ma la macchina del caffè è guasta. 

Ho cialde da spalare, ma la macchinetta del caffè è guasta. 

È guasta.

Guasta maledizione. 

A fianco a me il cadavere impacchettato nella sua tuta sembra un puffo con la faccia blu e la lingua di fuori, ma almeno è ben sigillato e non puzza. 

“Sarai un eròe” mi diceva coach Adalberto con il suo accento partenopeo, “si aprirà la stazione di teletrasporto su Point two e avremo una possibilità per ricominciare dopo esserci fottuti la Terra”. 

Già già. 

Un eroe quindi, ma niente coffee. 

Ho pure il ginseng maledizione, già zuccherato. 

Sono completamente atrofizzato.

Beeep! Beep! Beeeeeeeep!!

Dopo tre anni non faccio neanche più la checklist, questo maledetto super computer di bordo, si chiama Ray e fa tutto da solo. 

Schiavo di supercomputer dai nomi cinematografici. 

Sulla tuta del tizio c’è un nome familiare, assolutamente banale, un nome che conosco bene. 

Ray sta facendo i controlli di routine in totale autonomia da quando ho smesso di lavorare. 

Dovrei verificare un sistema molecolare quantistico? 

Motori, sistema di sostentamento, temperatura risorse biologiche, sistema di navigazione, rotta, integrità strutturale, avvio e reset moduli funzionali, esplorativi e di riserva. Lo scafo in caso di necessità, si ripara da solo con un fungo polimerico che si nutre di radiazioni, si chiama Pripyat. 

Ray ha dei nanorobot che possono riparare ogni parte della nave, possono pure curare l’equipaggio se espressamente richiesto, ma la macchinetta del caffé non rientra nei protocolli di riparazione in quanto bene di lusso.

Peccato che Ray non si sia ancora accorto che il maledetto pilota sia leggermente morto: da tempo manca l’ossigeno e la temperatura è polare, non rilevando la forma di vita Il genio risparmia le risorse ambientali. 

Coach Adalberto mi addestrò dettagliatamente: pilotaggio, meccanica, sport e fisica quantistica, poi mi riempì di obiettivi. 

“Targèts è tutto ciò che ti serve per sopravvivere”. Disse Adalberto in inglese con quella forte cadenza napoletana: “Targèts a lungo, a medio, a breve, a brevissimo termine, targèts pure per pulirti il sedere in maniera funzionale su quell’aspirapolvere spaziale”.  

Compagni di viaggio: un computer stupido e una macchina per il caffè troppo complicata per essere riparata. 

Sul petto della tuta campeggia la piastrina nominativa: M. Pistone.

Beep! Beeep! Beeeeeeeep!!!

Mike veniva da una famiglia di torrefattori ed era cresciuto in una bellissima masseria. 

Nei pressi della struttura si aggirava un cane randagio ed il piccolo Mike rompeva l’anima a tutti per tenerlo, gli dava da mangiare di nascosto e lo accarezzava attraverso la rete. 

Gli adulti non ne volevano sapere e ottenne in dono una capretta di otto mesi. L’aveva chiamata Maya, come l’ape dei cartoni animati, era un regalo che gli aveva fatto il nonno alla fiera di Burcei, in Sardegna. 

Il piccolo Mike amava allattare Maya con il biberon della sorellina. Un giorno però, il cane entrò da un buco nel recinto e sgozzò Maya. Non la mangiò, si limitò ad addentarne il collo e a sgrullarla forte, come uno straccio bagnato. 

Mike scoprì la cosa dopo il riposino delle sedici. 

Non la prese molto bene, ma suo padre la prese peggio. 

Il cane era rimasto vicino al cancello che si godeva il fresco tutto fiero, accucciato con la capretta tra le zampe all’ombra di un grande gelso. 

Esponeva il suo trofeo, pareva un gatto con un uccellino. 

Appena il figlio informò il genitore, quest’ultimo salì a bordo del suo costoso SUV Tesla e caricò il cane come avrebbe fatto un toro: a testa bassa e sbuffando dalle frogie. 

Senza esitazione disintegrò il canide facendo avanti e indietro cinque o sei volte, nonostante i danni al cancello, al Suv, al cane stesso, alla carcassa di Maya ed alla psiche dei presenti. 

Mike si era reso conto di non avere più peso nella missione. Il computer non gli parlava più, nonostante i tentativi di riavvio non gli faceva nemmeno gli auguri per il compleanno. Era giunto ad ignorare deliberatamente il suo ospite umano.

Nella stiva c’erano tre villaggi di gente ibernata che non aveva bisogno di lui, il mondo non si aspettava più nulla da Mike e Mike perse la capacità di darsi stimoli. “Guagliò, avrai momenti duri, usa la routìnnn!” Diceva Adalberto. 

Come facevano sempre suo padre e suo nonno prima di lui, Mike si attaccò al caffè, un buon caffé risolveva qualsiasi problema,  ma la macchinetta smise di funzionare, a tradimento. 

La diagnosi parlava di una sciocchezza, un piccolo pezzo di ricambio quasi completamente stampabile, ma la resistenza era bruciata e dopo cinque anni di viaggio in solitaria quel giorno Mike per stare dietro alla macchina del caffè saltò la seduta di fitness per la prima volta. 

“Lo shport è fondamendale per tenere la testa pulita, mi raccomando!” Adalberto rimproverava Mike direttamente dalla sua memoria mentre l’astronauta trafficava febbrilmente tra i pezzi dell’apparecchio come il dottor Frankenstein nella pancia della creatura.

Fece mille esperimenti, danneggiò persino alcuni pannelli secondari del riscaldamento per usarne dei pezzi, ma nulla.

Niente caffè. 

“Se non riesci ad aggiustarlo, puoi sempre infilartelo nel culo!” diceva sempre il nonno a suo padre e il piccolo Mike il concetto l’aveva assimilato molto bene. 

I giorni passavano e i bollettini dalla Terra erano davvero pessimi. In Europa, la sua Europa, adesso c’era la dittatura; la Cina aveva colonizzato l’Africa e sconfitto gli USA in una guerra lunghissima combattuta in Argentina. L’inquinamento delle acque e dell’aria aveva abbassato l’attesa della vita media a cinquantotto anni, sempre se non morivi sparato prima.

Sulla Terra erano passati quasi centoquarant’anni mentre lui era al cazzeggio per lo spazio da soli cinque.

Il mondo era profondamente cambiato e Mike non aveva nessuno che lo aspettasse da qualche parte. Per Mike casa era un appartamento di pochi metri quadri con un computer obsoleto, una scrivania, un letto e un cospicuo conto in banca con cui avrebbe potuto comprare molte cose inutili. 

Due giorni fa l’uomo ha indossato la tuta spaziale, ha sigillato la cabina disattivando manualmente la climatizzazione ed espellendo l’ossigeno. Si è assicurato al sedile del pilota in protocollo di ibernazione che comportava il blocco di mani e braccia ma non prima di aver innescato il conto alla rovescia per l’espulsione dell’ossigeno anche dalla tuta ed averne resettato le credenziali di programmazione. 

Voleva impedirsi ripensamenti. 

Essendo un ragazzone robusto, a soffocare ci ha messo quasi sei minuti mentre Ray eseguiva disinvoltamente le sue routine. 

La prima direttiva di Ray era l’obbedienza assoluta a Mike, i programmatori non avevano letto Asimov, evidentemente.

Mike Pistone alla fine è morto, però qualcosa è andato storto.

Il corpo si è spento ma la sua anima è rimasta a galleggiare in cabina. 

Niente libertà. 

Niente tunnel, niente paradiso, inferno, casa, mamma, nonno, niente Maya, niente di niente. 

Una tuta, un cadavere, una macchina del caffé rotta. 

Quattro  anni da adesso, questa astronave atterrerà su Point two. 

Prima si avvierà il protocollo di emergenza, ed in totale autonomia Ray scandaglierà dall’orbita la superficie del pianeta. 

Subito individuerà il sito più idoneo allo stazionamento e atterrerà. 

Scongelerà il reparto tecnico, poi sarà la volta degli operai che installeranno i moduli abitativi e avvieranno in maniera indipendente l’esplorazione e la bonifica di superficie tramite le sonde. 

Infine verrà avviato il portale Donati e ci sarà una finestra fisica su Point One, un laboratorio super segreto delle Alpi Svizzere. 

La Terra tornerà accessibile e i terrestri avranno un nuovo mondo da massacrare. 

Solo allora qualcuno potrà riparare quella maledetta macchina del caffè, liberando lo spirito di Pistone da quella nave. 

Sei mesi dopo la morte di Mike Pistone succede una cosa. 

Un piccolo altoparlante situato sotto l’orecchio del cadavere, quello deputato alla comunicazione di Ray con il pilota, a seguito di uno sbalzo di tensione, torna a fare contatto nell’esatto istante in cui era prevista l’attivazione del protocollo “Happy birthday”. 

Ray non aveva attivato i robot riparatori per quell’altoparlante perché aveva previsto che il danno si sarebbe risolto autonomamente a seguito di una complicata serie di microvariabili una volta usciti dalla nebulosa Ckh798tr/2 e il pilota fino ad allora avrebbe potuto godersi un periodo di riposo di un paio di anni.

I programmatori avevano lavorato moltissimo per inserire nella sua logica il concetto di empatia.

Beep! Beep! Beeeeeep!!!!