Premessa.

Questa notte ero in salotto che in preda all’insonnia surfavo per il Netflixspazio nella solitudine di una casa piena di gente che dormiva di brutto. Non ti becco il film definitivo? Il filmone da doppio salto mortale carpiato all’indietro? Quello che cerchi da anni senza saperlo? Un film che ti smuove entusiasmi che credevi ormai morti e che naturalmente non puoi condividere, perché tutti, essendo le tre del mattino, dormono.

Allora prima rimani a frustrarti in stato di autoesaltazione rosicando come un castoro per non poterla condividere.

Poi però ti ricordi che sei un editor bokononista e tutto acquista senso di botto: cellulare alla mano e daje con la recensione!

 

La trama semplice semplice: Un tizio scozzese di fine ottocento, Mel Gibson, viene chiamato dall’università di Oxford per compilare il vocabolario della lingua inglese. Stampa degli opuscoli per reclutare gente interessata a collaborare e tra questi risponde un altro tizio, Sean Penn, da un manicomio criminale, arrestato per omicidio.

I protagonisti del titolo vengono dipinti dal regista immersi in una Inghilterra fredda, buia, umida, ostile, viene la polmonite solo a guardarla, figurarsi a viverci.

Il professore, Mel Gibson, insegnante autodidatta, conoscitore di decine tra lingue e idiomi, padre di undici figli, sposato con l’amore della sua vita, deve inseguire il sogno: la redazione del vocabolario Oxford che probabilmente solo lui ha le conoscenze e la follia per approcciare, un’opera titanica che per essere chiusa ha richiesto circa sessanta anni e che ha costituito il pilastro culturale comune per tutti i paesi delle colonie britanniche.

Una cosetta da poco insomma.

Gli ostacoli: un trasloco impegnativo umanamente per la gestione famigliare, una aristocrazia universitaria ostile ed infine un manager capitalista che riduce una delle meraviglie culturali di questo secolo ad una gara di vendite contro la Bibbia su scala mondiale.

Il pazzo: uno Sean Penn con gravissimi problemi di salute mentale. Costui in preda alle allucinazioni ha sparato a sangue freddo ad un operaio padre di sei figli davanti agli occhi della moglie. L’omicida è un bravo chirurgo di guerra che si distingue per prontezza e coraggio durante un incidente che vede vittima un secondino ed è gestito dal direttore del manicomio in maniera eccellente a livello umano ma con limitati strumenti dovuti ad un epoca agli albori della scienza neurologica.

Il salvataggio apre un dialogo con il personale della struttura che permetterà allo schizofrenico ante litteram di esplorare la propria malattia attraverso alcune attività tra cui la collaborazione con Oxford.

Gli ostacoli per lui sono ovviamente i demoni che gli impediscono primariamente di trovare redenzione pur tenendo una condotta che definire esemplare rimane eufemistico.

Già perché l’assassino, con la sua grazia, riesce a recuperare il rapporto con la vedova della vittima fino ad un terribile paradosso che deve rimanere una sorpresa.

In questo frangente va segnalata la magistrale interpretazione di un attore inglese che si chiama Eddie Marsan, segnatevi il nome di questo mostro di bravura, attore che conosciamo già benissimo per averlo visto ovunque ma va focalizzato assolutamente, su Netflix è molto presente. Il suo personaggio apparentemente di raccordo si rivelerà il portatore del sentimento più forte di tutto il film: l’indignazione di una persona per bene, forse ignorante, ma dotata di sacro senso civico di fronte a qualcosa che ritiene sbagliato e che forse gli costerà il posto, il suo unico privilegio, contrastare. Il paradosso è che potrebbe anche avere torto a livello medico, ma quell’impeto di natura così spontanea e improntato alla difesa della dignità, nonostante una vita passata a testimoniare chissà quali abissi comportamentali ed ai quali avrebbe potuto cedere, abbrutendosi forse anche legittimamente per una mera questione di sopravvivenza psichica, rende quell’uomo il più grande, vero, aristocratico, eroe del catalogo umano.

Ed è un personaggio secondario.

E poi la lingua, la vera forza motrice degli eventi, antica, immane, sfuggente, inafferrabile dagli scienziati e che solo la sensibilità di un poeta può rendere prigioniera.

Lingua che si fa ponte dell’amicizia più improbabile e calda e fraterna ed eterna, il professore che già vive sul filo di un progetto che è in perenne bilico sul fallimento, ancora una volta deciderà chi essere per salvare il suo amico, giocandosi il tutto per tutto anche quando potrebbe scegliere una scrollata di spalle ed un “ci abbiamo provato: è andata così”.

Perché questo film sposta il baricentro dell’anima di chi lo guarda?

Perché i contrasti tra la nobiltà d’animo, quella autentica, che attraversa i personaggi anche secondari come la vedova della vittima, il secondino, la moglie del professore, salendo su, fino a Churchill, trova il contrappunto in una società aspra, naturalmente spietata che può confidare solo nella possibilità del singolo di attingere alla tenerezza, all’educazione, alla sensibilità, ma anche al rispetto di una coscienza civile.

Tutti i personaggi in realtà si distinguono per un valore che hanno scelto, perfino il sinistro capitalista neoindustriale oxfordiano ebbro di potere.

E poi ci sono i bambini. Chiunque sia figlio non può non innamorarsi alla follia di Mel Gibson fin dalla scena di presentazione. Padre assente ma assolutamente presente e determinante grazie al progetto di coppia in cui sua moglie, con tutte le sue legittime e sacrosante fragilità è la vera chiave che rende possibile ogni sfida. Quella è una casa dove si litiga ma è anche il posto dove le persone crescono. Allo stesso modo anche la famiglia della vedova è un regno di dolore e contrasti che allontanano ogni effetto famiglia del mulino bianco dalla scena. Naturalmente anche un  film del genere presenta robusti limiti. Il patriarcato trasuda dallo schermo solleticando il più moderno degli spettatori della generazione X su su fino al boomer. Se la moglie del professore avesse detto “Da domani a Oxford ci vado io e tu rimani a casa a domare undici cristiani” probabilmente ci sarebbero stati schiaffoni, divorzi o comunque frustrazione e depressione per il professore. Anche la vedova lavora solo a seguito della tragedia in sostituzione del marito morto che metteva il pane in tavola, tipo ruota di scorta economica, ma il sistema non è allineato e lei precipita subito nell’unica attività disponibile nel contesto suburbano, tra l’altro costringendo per forza di cose i figli a lavoro minorile. Questo è purtroppo qualcosa che disturba parecchio. Ciononostante entro i limiti del racconto tratto da una storia vera ma con sicuramente molte licenze poetiche, alla fine le parole che rimangono sono proprio queste: dignità, famiglia, cultura, poesia, genio, amicizia, solidarietà, dialogo, ascolto, onestà, vergogna, valori, tutte insieme legate nel fare da contrappunto a una sola: dolore

 

  • Perché sì: perché ti restituisce fiducia nelle persone, ti indica come ci si dovrebbe comportare per aggiustare questo mondo.
  • Perché no: perché dà speranza nell’umanità, ma la speranza esige impegno.